Sono più di 200 i profughi eritrei che la settimana scorsa hanno lanciato una do- manda di aiuto alla comunità internazionale. Sono rinchiusi nel carcere di Al-Braq, nel sud della Libia, da dove sono riusciti a inviare un disperato sms: "Siamo col- piti da malattie contagiose, la tortura è una pratica comune e, quel che è peggio, siamo rinchiusi in celle sotterranee dove la temperatura supera i 40°. Stiamo sof- frendo e morendo". Molti di questi eritrei sono vittime dei respingimenti effettuati da Marina e Guardia di Finanza italiane. In particolare 11 di loro sono stati bloccati in mare il 1° luglio 2009 riportati in Libia e fatti sbarcare. Se fossero riusciti a rag- giungere l’Italia avrebbero chiesto e ottenuto l’asilo politico. La Libia ha il regime che tutti conosciamo e in linea con i propri dettami politici autoritari non ha firmato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati e non ha una legislazione sull’asilo politico. Lo scorso 30 giugno era iniziata a circo- lare la notizia di una rivolta nelle carceri libiche di Misratah, causata dalla richiesta d’identificazione dei detenuti eritrei, da parte dell’autorità della prigione. L’identificazione sovente implica il rimpatrio e gli eritrei sanno bene che ad aspettarli nel loro paese ci sono carcere, torture e lavori forzati oppure la morte. Dopo aver sedato la rivolta le forze dell’ordine avevano as-
segnato a un altro carcere i più di 200 pro- fughi, trasferimento dentro due container arroventati sotto il sole del Sahara, arrivo a Al-Braq per subire trattamenti inumani: pestaggi e violenze, sistematiche e ripetute. Erano però riusciti a nascondere ai secondini un telefono cellulare, con il quale hanno recapitato al mondo la drammatica richiesta di soccorso, che viene rilanciata per giorni soltanto dall’Unità. Poi la riprendono giornali di altri paese, finalmente an- che gli altri media italiani, e scoppia il caso internazionale: la Libia ha una “protezione” speciale da parte di Silvio Berlusconi, e quindi tocca ai ministri italiani cercare di risolvere la situazione con la proposta di risolvere la questione inserendo i profughi in campi di lavoro. Certo per queste 200 persone, e per chissà quanti altri, non ci sono molte scelte: scappano da un paese in guerra, nel quale verrebbero perseguitati se vi facessero ritorno, vengono torturati in carcere in un paese che non gli riconosce nessun diritto e che gli offre come “salvezza” i lavori forzati. È ovvio che sognino l’Europa per ricominciare a vivere. In par- ticolare l’Italia che dista solo poche ore di navigazione dalle coste libiche, ma cosa li aspetterebbe una volta qui? Ascoltando le testimonianze dei rifugiati che dall’11 settembre 2009 abitano in via Asti verrebbe da dire che i sogni non si realizzano mai. Infatti nell’ex caserma vivono ancora 70 persone alle quali è stato concesso l’asilo
politico, la maggior parte di origine somala e alcuni sudanesi. La quasi totalità ha se- guito corsi di italiano e di avviamento al la- voro, ma praticamente nessuno ha trovato un impiego. Lo scorso autunno quasi 180 rifugiati, tutti uomini, lasciarono la clinica di Corso Peschiera per trasferirsi in via Asti, assecondando la volontà del Comu- ne che aveva promesso una vita dignitosa a ciascuno di loro. Intanto i fondi stanziati per l’emergenza sono finiti e almeno 70 ri- fugiati sono ancora senza un lavoro, sen- za una casa, senza niente. Per chi vive in via Asti sono tempi duri: l’autogestione imposta dalla mancanza di un ente forte che possa ricoprire il ruolo di gerente della struttura, sempre meno presenze di associazioni e volontari, niente più pasti da tre settimane e la scadenza di fine mese entro la quale tutti dovranno lasciare la ex-caserma. Mohammed e Youssef vanno tutti i giorni alla mensa della Caritas: "Non ci portano più da mangiare – racconta Mohammed - e non abbiamo i soldi per fare la spesa. Io vivo da quasi due anni in Italia e non ho trovato lavoro neanche per un giorno. Il Comune ci farà vedere una casa e se noi non accetteremo di trasferirci lì, non potremo nemmeno più tornare qui in via Asti. Sono scappato dalla Somalia dove c’è la guerra, ma ora in Italia non corro il rischio di morire ma non so come vivere. Ho troppi problemi: la casa, il mangiare, il lavoro. Tutto".
Tratto da Terra Comune
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venerdì 9 luglio 2010
Rifugiati abbandonati in Libia come in via Asti
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