venerdì 9 luglio 2010

Rifugiati abbandonati in Libia come in via Asti

Sono più di 200 i profughi eritrei che la settimana scorsa hanno lanciato una do- manda di aiuto alla comunità internazionale. Sono rinchiusi nel carcere di Al-Braq, nel sud della Libia, da dove sono riusciti a inviare un disperato sms: "Siamo col- piti da malattie contagiose, la tortura è una pratica comune e, quel che è peggio, siamo rinchiusi in celle sotterranee dove la temperatura supera i 40°. Stiamo sof- frendo e morendo". Molti di questi eritrei sono vittime dei respingimenti effettuati da Marina e Guardia di Finanza italiane. In particolare 11 di loro sono stati bloccati in mare il 1° luglio 2009 riportati in Libia e fatti sbarcare. Se fossero riusciti a rag- giungere l’Italia avrebbero chiesto e ottenuto l’asilo politico. La Libia ha il regime che tutti conosciamo e in linea con i propri dettami politici autoritari non ha firmato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati e non ha una legislazione sull’asilo politico. Lo scorso 30 giugno era iniziata a circo- lare la notizia di una rivolta nelle carceri libiche di Misratah, causata dalla richiesta d’identificazione dei detenuti eritrei, da parte dell’autorità della prigione. L’identificazione sovente implica il rimpatrio e gli eritrei sanno bene che ad aspettarli nel loro paese ci sono carcere, torture e lavori forzati oppure la morte. Dopo aver sedato la rivolta le forze dell’ordine avevano as-
segnato a un altro carcere i più di 200 pro- fughi, trasferimento dentro due container arroventati sotto il sole del Sahara, arrivo a Al-Braq per subire trattamenti inumani: pestaggi e violenze, sistematiche e ripetute. Erano però riusciti a nascondere ai secondini un telefono cellulare, con il quale hanno recapitato al mondo la drammatica richiesta di soccorso, che viene rilanciata per giorni soltanto dall’Unità. Poi la riprendono giornali di altri paese, finalmente an- che gli altri media italiani, e scoppia il caso internazionale: la Libia ha una “protezione” speciale da parte di Silvio Berlusconi, e quindi tocca ai ministri italiani cercare di risolvere la situazione con la proposta di risolvere la questione inserendo i profughi in campi di lavoro. Certo per queste 200 persone, e per chissà quanti altri, non ci sono molte scelte: scappano da un paese in guerra, nel quale verrebbero perseguitati se vi facessero ritorno, vengono torturati in carcere in un paese che non gli riconosce nessun diritto e che gli offre come “salvezza” i lavori forzati. È ovvio che sognino l’Europa per ricominciare a vivere. In par- ticolare l’Italia che dista solo poche ore di navigazione dalle coste libiche, ma cosa li aspetterebbe una volta qui? Ascoltando le testimonianze dei rifugiati che dall’11 settembre 2009 abitano in via Asti verrebbe da dire che i sogni non si realizzano mai. Infatti nell’ex caserma vivono ancora 70 persone alle quali è stato concesso l’asilo
politico, la maggior parte di origine somala e alcuni sudanesi. La quasi totalità ha se- guito corsi di italiano e di avviamento al la- voro, ma praticamente nessuno ha trovato un impiego. Lo scorso autunno quasi 180 rifugiati, tutti uomini, lasciarono la clinica di Corso Peschiera per trasferirsi in via Asti, assecondando la volontà del Comu- ne che aveva promesso una vita dignitosa a ciascuno di loro. Intanto i fondi stanziati per l’emergenza sono finiti e almeno 70 ri- fugiati sono ancora senza un lavoro, sen- za una casa, senza niente. Per chi vive in via Asti sono tempi duri: l’autogestione imposta dalla mancanza di un ente forte che possa ricoprire il ruolo di gerente della struttura, sempre meno presenze di associazioni e volontari, niente più pasti da tre settimane e la scadenza di fine mese entro la quale tutti dovranno lasciare la ex-caserma. Mohammed e Youssef vanno tutti i giorni alla mensa della Caritas: "Non ci portano più da mangiare – racconta Mohammed - e non abbiamo i soldi per fare la spesa. Io vivo da quasi due anni in Italia e non ho trovato lavoro neanche per un giorno. Il Comune ci farà vedere una casa e se noi non accetteremo di trasferirci lì, non potremo nemmeno più tornare qui in via Asti. Sono scappato dalla Somalia dove c’è la guerra, ma ora in Italia non corro il rischio di morire ma non so come vivere. Ho troppi problemi: la casa, il mangiare, il lavoro. Tutto".

Tratto da Terra Comune
Per scaricare il numero di questa settimana qui

lunedì 28 giugno 2010

piazza rossa è morta

La nuova piazza di Nichelino è nata sotto una cattiva stella e quindi anche l’inaugurazione non poteva che essere un flop. Sarà stato per l’infelice scelta dei tempi, le 15 di una assolatissima domenica di fine giugno con oltre 30° all’ombra, ma solo 200 persone si sono presentate a vedere il taglio del nastro. Tra i presenti: tutto il PD e buona parte della giunta, tutti sul palco naturalmente.

Viste le polemiche che hanno accompagnato i lavori non bastavano i politici, infatti si sono presentati anche i progettisti della piazza. Questi con fare da architetti e ingegneri, quali sono, hanno spiegato il perché delle scelte fatte, parlando di spazi, direttrici, valorizzazioni e altre parole che a noi non urbanisti richiamano poche nozioni e non chiarificano troppo. Poi il colpo di scena; viene spiegato anche a noi mortali il perché di questi pali con tutti i laminati d’acciaio: “sono delle quinte per la chiesa di scuola juvarriana”. Insomma l’idea non è neanche male: la piazza fa schifo, gli edifici che ci si affacciano sono tutti in stile diverso e sono grossomodo inguardabili, l’unica cosa da salvare è la chiesa, quindi cerchiamo di metterla in valore. A mio modestissimo parere l’effetto raggiunto non è quello che si erano prefissati, infatti non avere i pali davanti al Prestige porta a uno sbilanciamento del colpo d’occhio. Mi rendo conto che io sono solo un ragazzetto con il vezzo della fotografia e non lavoro in uno studio d’architetti che fa spendere a un comune 2.5 milioni di euro per il rifacimento di una piazza, ma che vi devo dire il lavoro è venuto male.

Naturalmente non sono il solo a non amare la nuova piazza, anzi una lunga campagna contro la scelta del restiling è stata fatta da un gruppo di cittadini, provocando le ire del sindachissimo. Tutti gli interventi dei politici dal palco, escluso Pansini, hanno rimarcato come queste critiche fossero infondate poiché nate prima della fine dei lavori. Il più arrabbiato è proprio Catizone che quando prende il microfono parla usa toni accesi e perfino alterati, cosa molto insolita nelle sue uscite pubbliche. Il momento di massima tensione è il riferimento a un volantino a firma Comitato Piazza Rossa che alcuni “attivisti” hanno fatto finta di distribuire prima del taglio del nastro.

Qui a mio parere si vede la “Tristezza Nichelino”: un sindaco che urla contro dei suoi concittadini i quali sono così impauriti non hanno nemmeno il coraggio di distribuire il volantino che hanno preparato, ma che lo rendono pubblico nascondendosi dietro lo schermo di un pc. Beneinformati raccontano che al momento dell’organizzazione del volantinaggio si fosse parlato di una messinscena di un funerale, quello del buongusto, che si sarebbe dovuto svolgere in piazza proprio durante l’inaugurazione. Il finto funerale non c’è stato, mentre il vero morto è il Comitato Piazza Rossa. Spero che i ragazzi del comitato mi sappiano smentire.

Qui un post precedente sulla Piazza Rossa.

venerdì 25 giugno 2010

posteggio clandestino

Una domanda. Se uno può spendere decine di migliaio di euro per una macchina, come è possibile che non abbia un euro per parcheggiarla nel posteggio sotterraneo di Piazza Vittorio e la debba lasciare in mezzo alla piazza?
Sarà che non possiedo una macchina e che quindi non mi rovino mai le serate per cercare posteggio, ma penso che chi parcheggia sui marciapiedi è il più incivile dei cittadini. In particolare nelle zone piene di locali che la sera su quei marciapiedi dovrebbero accogliere i fumatori tra una birra e l’altra. A Torino la zona peggiore è quella dei Murazzi dal giovedì alla domenica un serpentone di auto si posteggia sugli ampi marciapiedi da Corso San Maurizio fino al a Corso Vittorio Emanuele II. Esattamente tutta la strada che io percorro per andare da casa fino al parco del Valentino, la mia metà prediletta per le serate estive.
Nel corso del tempo ho reagito in modi diversi a questa invasione di posteggi abusivi, qualche volta me ne lamento, altre cerco di spiegare a chi posteggia quanto sia incivile, una sera in preda a fumi dell’alcol ho fatto saltare un paio di specchietti, seguendo il principio che ho importato da oltralpe. Sabato scorso dopo l’ennesimo zig-zag tra le vetture posteggiate vedo un nutrito gruppo agenti dalle divise più diverse: 5 o 6 vigili, 2 carabinieri e 2 alpini. Stavano chiacchierando davanti alla discesa per scendere ai Murazzi.
Mi avvicino e chiedo di parlare con un vigile, il più alto in grado si rende immediatamente disponibile e gli domando il perché non passino a fare un po’ di multe a tutte queste auto parcheggiate in mezzo alle palle. Il vigile inizia col dirmi che è meglio che io gli lasci fare il suo mestiere e che io mi faccia il mio. Invito a nozze: “Sono un giornalista e di mestiere controllo che lei faccia il suo!”.
La conversazione cambia tono, il Commissario, così si fa riconoscere, mi racconta che ci sono degli agenti in borghese che passano e con una videocamera fanno multe a strascico a tutti quelli parcheggiati male. Bah, mica mi convince! Ho cercato di informarmi in questi giorni per verificare questa notizia, ma con poca fortuna. Unica notizia sicura sulle multe a strascico è l’entrata in servizio di un paio di unità a Milano che sanzionano il parcheggio in doppia fila.
Comunque se non sono lì per fare delle multe e nemmeno per fare il palloncino, domando come mai sono in 10 persone, con dieci pistole, davanti all’ingresso della movida torinese. Il Commissario risponde che sono lì per controllare i documenti agli extracomunitari: “Perché se no, sa quanti ne scendono! Dobbiamo controllare i documenti.”
Insomma a Torino per scelta del comandante i vigili invece di occuparsi del decoro urbano e della viabilità delle strade, vanno in cerca di stranieri. Le ronde non sono funzionate, ma tanto il Chiamparino ci mette i vigili a fare i vigilantes.

lunedì 14 giugno 2010

tutto bene?

Il grande circo mediatico ha acceso le luci sul Sudafrica e alla fine anche i più scettici si sono “ravveduti”, cominciando a osannare la Santa Coppa del Mondo. Il Sudafrica è un paese povero, certo non il più povero dell’Africa, ma comunque distante anni luce da quel benessere che condividono le grandi potenze calcistiche del mondo. In Sudafrica ci sono milioni di persone che vivono sotto il livello di povertà, le città crescono a grande velocità creando una periferia di quartieri-ghetto per i più poveri. Con tutti i soldi spesi per le grandi opere chissà quanto si sarebbe potuto fare per una popolazione che ancora stenta a costruire il proprio futuro dopo il colonialismo e l’apartheid.
Il punto è forse proprio questo: una nazione nata dalle ceneri di una colonia quanto ci metterà per raggiungere la propria identità? Per il caso sudafricano a rendere le cose più difficili ci ha pensato l’apartheid ereditato dalla colonizzazione, rendendo ancora più lungo il cammino verso l’unità nazionale. Ci sono commentatori, come il lucido Matteo Fagotto, che ritengono proficua l’unione di tutti i sudafricani anche se solo per le poche ore delle partite.

A gennaio si è svolta la Coppa d’Africa, per raggiungere l’Angola, paese che ha ospitato la manifestazione la nazionale togolese ha optato per il pullman. Il Togo dista migliaia di km dall’Angola e per arrivarci bisogna attraversare diversi stati, al confine tra Congo e Angola il pullman della nazionale togolese è stato vittima di un attentato. Tre i morti, numerosi feriti e la federazione togolese ritira la nazionale dalla competizione. Le nazionali africane non sono ricche come quelle europee, quindi niente aerei e alberghi extralusso o grandi premi in denaro, rimangono però un’ottima vetrina per i giocatori che vogliono tentare il salto del mediterraneo per approdare in club uefa.

La maggior parte dei sudafricani non si può permettere un biglietto per andare a vedere i dorati mondiali, negli stadi nuovi di zecca finanziati con soldi statali sottratti qua e là dai fondi per lo sviluppo del paese, quindi cerca di partecipare come può. Andando a vedere gli allenamenti, questi gratis e aperti al pubblico, delle grandi nazionali europee e sudamericane o andando a vedere le poche partite gratuite che hanno fatto da cornice ai mondiali. Cronaca di pochi giorni fa i 20 feriti nella ressa per andare a vedere un amichevole a Soweto tra la Nigeria e Corea del Nord.

Il calcio stellato delle grandi nazionali, dei contratti milionari e dell sistema economico che ci gravita attorno è per molti aspetti una metastasi del nostro sistema, non capisco perché deve essere esportato. E’ uno dei grandi vizi occidentali in cui tanti soldi e tantissima popolarità, trasformano il calciatore in un eroe. Pensate che danni può fare questa malsana combinazione in un paese che africano. Il sempre buon Weah si è candidato nel 2004 per diventare presidente della Liberia, avendo buone possibilità di essere eletto. Così non fu, ma il saggio centravanti si è iscritto a una scuola statunitense per ricandidarsi tra qualche anno quando avrà dalla sua anche un bel certificato di laurea. Non ho nessuna riserva sulle buone intenzioni di del ex-milanista, ma in Italia stiamo capendo, a caro prezzo, che un presidente di una squadra di calcio, anche se “ha vinto tutto”, non è obbligatoriamente un buon politico. Pensate che un ottimo centravanti potrebbe fare meglio?

lunedì 7 giugno 2010

gare de lyon - porta susa

Gare de Lyon 07.42, Torino Porta Susa 13.17, niente di più semplice. Sali sul treno con ancora l’odore di croissant au beur nelle narici, chiudi gli occhi e ti svegli solo dopo qualche ore per vedere la campagna lyonnaise. Il giornale ancora intatto comprato alla stazione della metro e la tranquillità di iniziare una breve giornata di lavoro solo nel primo pomeriggio. Non c’è nulla di più invitante, per essere un lunedì, è ovvio.

L’Unione Europea ha abbattuto i confini e le dogane interne, ma su questo treno c’è sempre un breve controllo. Solo qualche giorno fa sulla tratta inversa, Torino-Parigi, 6 poliziotti francesi, di cui due con delle belle divise con su scritto Douane, saliti sul Tgv hanno controllato i documenti di tutti e diversi bagagli. Negli ultimi anni ho preso sovente questo treno e capita piuttosto raramente che le forze dell’ordine invitino qualche passeggero a scendere e a seguirli per ulteriori controlli.

Il treno si ferma a Modane e lascia salire due poliziotti italiani -­qui giù tutti a piangere miseria sulle terribili condizioni in cui si trovano le nostre forze dell’ordine, dove i francesi ne mettono 6, noi solo 2- accompagnati da una bionda collega della police nazionale. Che sono connazionali lo potrei scoprire anche se indossassero una divisa di un altro stato, infatti non procedono con il controllo dei documenti di tutti i viaggiatori, bensì si rivolgono solo alla persone di colore del vagone. Ci sono circa 100 persone, di cui 3 evidentemente extracomunitarie: una ragazza africana, un giovane dell’asia meridionale e un attempato signore magrebino, che con il suo zuccotto nero ha letto per tutto il viaggio un libro arabo dalle scritte colorate. I poliziotti chiedono i documenti a 5 o 6 persone, o meglio qualche francese sporge la propria carta d’identità e i due agenti fanno finta di leggere i dati di qualcuno, ma la loro attenzione va tutta per i tre “evidentemente extracomunitari”.

Mi vergogno di vivere in un paese con delle forze dell’ordine così razziste.

Prendendo questo treno andando a Parigi avrei paura anche solo di portarmi dei petardi o des petards, per i controlli della polizia francese, mentre a ritornare in italia non c’è problema, potrei avere nelle valigie non bottiglie di vino, ma dell’esplosivo e nessuno mai mi controllerebbe: questa mia faccia da meridionale vale più che un passaporto diplomatico africano per le nostre forze dell’ordine.

lunedì 31 maggio 2010

manifestazione sufi






giorgio da voghera

Ci sono angoli di questa città che oramai odorano di casa: piccoli bar, panchine assolate, fermate di bus, i cessi della facoltà di scienze politiche e poi i banchi dei contadini a Porta Palazzo il negozio cinese di via Berthollet, il panettiere in corso San Maurizio.
Tra questi uno spazio che mi ha da sempre trasmesso del bene è il Fattore K in Vanchiglia. Oltre ad avere l’enorme pregio di essere a due isolati da casa è un ambientino che sa sempre come coccolarti. Grandi, enormi e comodissimi divani di pelle bianca attorniati da decine di oggetti plasticosi del miglior design degli ultimi 40 anni, a colorare il tutto una carta da parati che anche solo quella vale il tempo di arrivare fino al locale.
Venerdì sera in un mix di pioggia e birre chiare ci siamo lasciati avvolgere dai divani del Fattore K. Graditissima sorpresa è stata la serata OpenMic: chiunque aveva il diritto di mettersi davanti al microfono e cantare per un paio di canzoni. A iniziare è stato Giorgio da Voghera.

Dopo una presentazione melanconica il giovanotto di Voghera, suona 4 pezzi suoi, belli ritmati e mostra una voce non troppo allenata, ma molto gradevole. L’ultimo pezzo, prima di lasciare il microfono ad altri, mi è sembrato un piccolo capolavoro: un testo ammiccante e divertente con bel ritmo. L’ho registrato quasi per gioco, ma ci sono buone possibilità che diventi il mio personale tormentone estivo.

martedì 25 maggio 2010

toretti

Nella mia insana iperattività primaverile ho deciso di dedicare un’ora al giorno a filmare una fontana torinese. I famosi toretti sono diventati così il fulcro del mio dolce far nulla. Mi piazzo con la telecamera a pochi metri da una fontana, premo rec e apro il mio libro. Dopo un’ora mi risveglio, premo stop e vado a casa. L’intenzione è quella di monitorare quanto questi toretti sono usati e in particolare quanti “utenti” dissetano in un’ora.

Oggi però mi è andata male. Trovo una bella fontana dentro il Valentino, accanto a un parco giochi, posiziono la camera e sono in un brodo di giuggiole perché l’inquadratura viene insolitamente bene. Dopo una decina di minuti mi si avvicina un signore distinto sulla quarantina, mi domanda a cosa servono le riprese. Un po’ restio all’inizio si placa non appena vede il tesserino dell’ordine dei giornalisti. Ancora un paio di domande e si allontana con una frase premonitrice “Stia attento, la videocamera potrebbe essere fraintesa”. Ma come ho oramai collezionato una decina di toretti senza alcun problema…

Leggo ancora una mezza pagina del libro e mi avvicina un secondo signore, il gestore del chiosco lì vicino, che è meno cordiale del primo: “Stai filmando! Hai un permesso? No, non ce l’hai! Allora chiamo la polizia!”. Nemmeno il tempo di dirlo e digita il 113, non ho ancora aperto bocca e lui al parla con il pronto intervento “Venite voi o lo devo ammazzare io sto pedofilo?”.

Mette giù e mi dice “non ti muovere se non finisci nei guai”. Il suo punto di vista è quasi giusto, lui che ne sa chi sono io, che faccio e se quelle riprese le metto su internet con tutti quei bambini che bevono dalla fontana. Però poi rincara “Stai riprendendo tutte le bambine con le gonne, mentre si abbassano per bere”.

Allora nei pochi anni che ho vissuto mi hanno etichettato in tutti i modi: drogato, alcolizzato, peccatore, lussurioso, comunista, fumatore, bugiardo, casinista, provocatore, omosessuale, ladro, facinoroso, violento, irascibile, fascista e sovente mi danno del negro, anche se non è che sia proprio una mia caratteristica, ma mai del pedofilo.

Bene, io provo a spiegare quel che faccio, che le bambine come tutti quanti gli altri verranno resi irriconoscibili dalla velocità a cui verrà prodotto il filmato. Gli provo a dire che ho il diritto di filmare perché siamo in uno spazio pubblico. Gli provo a far capire che è un lavoro che va a favore proprio dei bambini che in quella fontana trovano ristoro. Nulla da fare mi dice “Tu per me sei un pedofilo, io ho una figlia di 4 anni. Se parli ancora ti riempio di botte”.

La polizia arriva. Il “chioscaro” racconta agli agenti che lui chiama sempre non appena vede un personaggio sospetto: “ho chiamato anche ieri perché c’erano due che si drogavano”. Un agente prende i documenti e l’altro prova a capire perché sono dovuti venire lì. Cerca di spiegare che è perfettamente legale quello che sto facendo, che posso riprendere e che nel caso le immagini rendessero riconoscibile qualcuno dovrei chiedere un’autorizzazione. Qui il colpo di scena. Il “chioscaro” s’incazza: “perché dovrei fidarmi di lui? Solo perché è un giornalista?”.

Beh, che dire, forse ha ragione. Sono mesi che ci penso, non appena ci si dichiara come cronisti la gente ti guarda storto e cambia espressione. I medici hanno il giuramento di Ippocrate, noi abbiamo il praticantato dove vai avanti solo se impari a metter ei piedi in testa ai colleghi.

Domani metto un adesivo del Grande Fratello sulla videocamera, così vedrai che anche il chioscaro si vorrà far riprendere con sua figlia in braccio.

lunedì 24 maggio 2010

passaporto

Ho deciso di andare a fare una cosa in un paese che una volta avremmo chiamato non allineato. Per questo mi sono messo alla ricerca di un modo per ottenere un secondo passaporto, infatti il mio ha troppi visti di paesi troppo allineati e il paese non allineato non mi avrebbe mai concesso il visto. Dopo lunghe ed estenuanti ricerche scopro un fatto gravissimo: i telefoni degli uffici passaporti di mezza italia squillano, squillano, ma non risponde nessuno e se per caso ti sembra di sentire che si alza la cornetta dall’altra parte vuol dire che non entro 4 secondi cadrà la linea. Per ovviare a questo problema del guasto delle suonerie di tutti i telefoni di buona parte delle questure, vorrei lanciare una campagna “Adotta un ufficio passaporti, regala una suoneria”, preferibilmente collegate a una campanella che viene usata nelle scuole.

In questa moria di suonerie riesco ugualmente a parlare con qualcuno al Ministero degli Interni che mi dice di non conoscere nessuna normativa che permetta il rilascio di un secondo passaporto, mi viene quindi consigliato di sentire la Farnesina. Chiamo quindi il Ministero degli Esteri dove mi mettono al corrente della possibilità di ottenere un secondo passaporto, ma a condizione di lasciare il primo depositato in questura per il tempo in cui si ha con se il secondo. Insomma un’ottima soluzione, mi sincero dei tempi di rilascio, 20/25 giorni, e ringrazio.

Prima cosa l’indomani mattina vado in questura qui a Torino. La poliziotta che dovrebbe dare le informazioni sui passaporti rimane sbalordita mentre le ripeto quanto mi è stato dato dal funzionario della Farnesina e mi rimbecca che queste cose non si possono fare e che loro dipendono dal Ministero degli Interni e non dagli Affari Esteri. Comunque mi scorta al piano di sopra dove mi riceve l’ispettore. Un, due, tre e si scopre che la procedura esiste ma che a Torino è poco usata o comunque non facilmente attuabile. L’ispettore mi consiglia di rifare il passaporto. Io sono un po’ stupito perché infatti questo vorrà dire che dopo essermi recato in questo paese non allineato dovrei rifare nuovamente il passaporto per viaggiare nei paesi occidentali. L’ispettore con i suoi baffoni neri mi dice che può anche succedere che io perda il passaporto con il visto scomodo e che quindi ne potrei fare un altro in autunno.

Facendo pure finta che non sia tanto grave quanto sembra questo consiglio, mi suona assurdo spendere 200 euro all’anno per rifare il passaporto due volte. Ma tant’è che non ci sono altre soluzioni, quindi chiedo i moduli per rifare il passaporto e chiedo dei tempi della questura per il rilascio. L’ispettore baffuto stima 30/35 giorni.

Quindi faccio le foto, pago il bollettino, compilo la domanda, compro 40 euro di marca da bollo e torno in questura. “Mi spiace non abbiamo la rete da Roma, conviene che torni domani”, mi dice il poliziotto da dietro il vetro.

Sono tornato ogni mattina per 3 giorni e ogni mattina la rete da Roma non dava segnale. Oggi finalmente dopo una lunghissima coda riesco a consegnare la domanda. Chiedo conferma dei tempi: “40/45 giorni, sa ci sono le vacanze”.

Difficilmente otterrò passaporto e visto in tempo per far quello che dovrei in questo paese non allineato. Quella che potremmo chiamare burocrazia e invece l’amore che la patria ha nei miei confronti. Ogni volta che nominavo questo paese non allineato il poliziotto, il funzionario e lo stesso ispettore mettevano su un’espressione severa e mi rivolgevano la fatidica domanda, riproposta in varie forme, ma che si può riassumere in “è sicuro di volerci andare?”. Insomma forse non ero sicuro e quindi hanno deciso loro.



lunedì 10 maggio 2010

pedali per l'auto

Nei suoi ultimi anni di rinnovamento urbanistico Torino ha deciso di regalare ai pedoni la centralissima via Lagrange. Niente più macchine e decine di vetrine agghindate per attirare i cittadini a passeggio. Per me ciclista, la via pedonale è una risorsa incredibile, particolarmente nei momenti meno trafficati: ore pasti e notturne.
La domenica a mezzogiorno con la via pedonale completamente sgombra e con un treno da prendere in pochi minuti, mi sono messo a pedalare di buona lena, forse troppa. Ad uno dei diversi attraversamenti carrai spunta il muso di una macchina di un vigilantes. Rallento e schivo. Il carissimo vigilantes si sente in necessità di strombazzare con veemenza. Mi fermo e gli faccio notare che le macchine dovrebbero dar precedenza a pedoni e ciclisti, ed evitare di spaventarmi suonando senza ragione. Il finestrino di abbassa e con indice puntato la guardia urla: “Se ti prendevo mi pagavi pure i danni”. Beh io gli ho risposto, lui è sceso con entrambe le mani già sulla cintura, alla quale era attaccata una bella pistola. Mi sono detto che se non ero morto investito, non valeva la pena di prendersi una pistolettata per far capire al mio caro vigilantes che, almeno in centro città, le auto dovrebbero viaggiare facendo attenzione a chi auto non è.
Questa storia mi frulla in testa tutta la giornata e stasera mi siedo e guardo con piacere Report, che parla appunto dell’Italia come il secondo paese più motorizzato al mondo, primi gli Usa. Nel Belpaese ci sono 6 macchine per ogni dieci abitanti del danno che fanno, la giornalista fa luce su quanto le auto pesano sull’economia e sul tempo che ci fanno perdere. Sentendo queste notizie mi guardo con la mia compagna e mi sento fiero delle nostre biciclette e dei nostri viaggi in treno.
A metà dell’inchiesta Report si ferma per la pubblicità. 10 spot in questo ordine: scarpe, auto, caffè, auto, alimentari, auto, medicinali per cani, telefonia e poi due spot su programmi che andranno in onda nei prossimi giorni. Insomma a metà di un’inchiesta denuncia contro le automobili e la schiavitù che creano, la Rai non ha potuto fare a meno di mantenere i telespettatori legati alla realtà ricordandogli che bisogna cambiare la macchina al più presto per non perdere gli incentivi. Io invece continuo a sognare e a pedalare.

lunedì 3 maggio 2010

domenica 2 maggio 2010

violenza al corteo

Stamattina ho partecipato al corteo del I° maggio: rosso predominante. Cori, coccarde, birre e bandiere.
Tutto procede nella norma, solo all'ingresso di piazza Castello un cordone di carabinieri decide di "rallentare" un carro che partecipava alla manifestazione. Non si è ben capito il motivo, ma sembra che tutto sia dovuto al fatto che sul carro sedesse un transessuale travestito da papa, cosa che avrebbe potuto turbare i pellegrini della sindone.
Spinte e scaramucce tra i manifestanti e il cordone dei carabinieri.
Stupisce la presenza di un poliziotto in prima fila nel cordone: sembrebbe un ispettore inviato a dirigere la manovra del cordone.
Sulla destra della foto che segue, si vede un ragazzo in maglia bianca che con sta caricando un colpo con un bastone.
Nello stupore generale, il poliziotto si becca una bastonata in testa e cade in terra.
Solo allora i carabinieri decido di aiutare il poliziotto e di includerlo nelle loro fila.
L'incidente rientra immediatamente, il cordone di carabinieri si scioglie e lascia entrare in piazza i manifestaanti e anche il "papa Trans".
Condannando chi usa la violenza , mi sorge comunque il dubbio che forse le forze dell'ordine potevano evitare di surriscaldare gli animi impedendo a un carro allegorico di sfilare. Inoltre mi sembra particolare che in un cordone di carabinieri sia proprio l'unico poliziotto a prendere le legnate.

giovedì 29 aprile 2010

il calcio dei rifugiati

Come buona parte dei cittadini italiani, anche io ieri sera mi sono visto le due ore di partita tra il Barcellona e l’Inter. Non sono un fanatico di calcio, anzi diciamo che mi annoia pure un pò, ma per un motivo o per un altro me ne faccio sempre una buona dose. Ieri sera è stata però la più singolare di tutte le partite che ho visto e non per la partita in se, ma per il luogo dove l’ho vista e perché non mi capita sovente di vedere una partita con il commento in arabo.

In via Bologna, a Torino, c’è uno stabile comunale che ormai da anni è occupato, al momento ci vivono tra i 70 e i 90 rifugiati politici. Vengono da tutti i posti che noi siamo abituati a sentire solo al telegiornale, quei paesi dove noi “occidentali” mandiamo i nostri eserciti per portare la pace. Circa 40 di loro ieri sera sedevano con me davanti a un minuscolo televisore a 14 pollici, per guardare la semifinale di Champions League. Probabilmente anche molti dei militari italiani in missione guardavano la partita ieri sera e vicino a loro c’erano i mezzi d’assalto e le armi necessarie per portare la pace.

I ragazzi che con me vedevano la partita ieri sera, sono rifugiati politici in Italia, la maggior parte parla italiano più di quanto un soldato italiano saprà mai parlare afgano o somalo. I ragazzi che vivono in via Bologna, scappano ognuno dal proprio paese in guerra, da una storia di violenza e persecuzione. I “nostri” militari sono disposti ad andare fino in Asia per portare la pace, ma lo Stato italiano non è capace nemmeno di trovare una casa ai profughi che arrivano in Italia per scappare da quelle guerre che i “nostri” soldati combattono.

Ieri sera qualcuno tifava Barcellona e altri tifavano Inter, non tanto per amore di una squadra, quanto piuttosto per i giocatori che militano nei due club, inutile dire che Eto’o, raccoglie i più grandi consensi. Una cosa però accomunava tutti: il fatto che tra pochi mesi tiferanno tutti Italia, perché “l’Italia ci ha accolti”. Come li ha accolti?

Finita la partita faccio un breve giro per la casa, dove si dorme in giacigli di fortuna e la si cucina e in un sottoscala, le condizioni igieniche generali sono terribili. L’Italia li avrà accolti, ma il massimo che sappiamo fare è dar loro la possibilità di occupare uno stabile fatiscente sotto la continua minaccia di essere sgomberati e diventare sfollati in Italia oltre a essere rifugiati. Paradosso dei paradossi noi andiamo a casa loro con le armi, distruggiamo tutto in nome della pace, loro vengono in Italia per sfuggire alle guerre che noi combattiamo o finanziamo e le uniche cose che sappiamo dargli è un permesso di soggiorno e una stretta di mano. La guerra in Afghanistan costa all’Italia 2 milioni di euro al giorno, cosa potremmo fare con quei soldi se i nostri soldati si prendessero un paio di settimane di ferie?

lunedì 26 aprile 2010

storie di povertà

Chi mi conosce anche solo un po’ sa quanto facilmente posso trasformare una normale conversazione in uno scontro epico. Qualche sera fa mi sono ritrovato dopo cena con una persona che non stimo particolarmente, ma con la quale cerco di avere il più onesto scambio di idee, almeno per quanto sia possibile con un venticinquenne più conservatore della regina Elisabetta.
Dopo poco meno di dieci minuti in cui il mio interlocutore si lamentava dei pochi soldi che il governo ha destinato al comparto auto, siamo finiti sul duro argomento della povertà che sta attanagliando tutta Italia. La mia controparte ha esordito dichiarando che in Italia “nessuno muore di fame” e che “lo Stato non ha soldi da dare a tutti, perché se li avesse li ridistribuirebbe”.
Oggi sono venuto a conoscenza della storia di una signora che vive a pochi isolati da me, nel centro della Torino che ha creato il suo benessere proprio sull’automobile. La storia di questa donna non ha nulla di speciale, la cosa che mi ha colpito è proprio la sua normalità: vedova, da pochi anni ultra-sessantacinquenne, da sempre casalinga, percepisce la pensione minima. Non è una signora colta ne possiede gli strumenti necessari per riuscire a muoversi efficacemente nel labirinto di sgravi fiscali e diritti del cittadino in difficoltà economica.
La signora percepisce poco meno di 600 euro di pensione, cifra che le permetterebbe di vivere dignitosamente se non dovesse pagare un affitto, ma da tre anni lei vive in un albergo. Il padrone di casa, dove ha vissuto tutta la vita con il marito, ha iniziato a farle pressione perché lei lasciasse l’appartamento. La signora ha lasciato l’alloggio senza nemmeno battersi per il suo diritto di vivere la sua vecchiaia nella casa che occupava da anni. Questo fatto le ha sbarrato le porte per poter accedere a qualsiasi aiuto da parte del comune, infatti avendo lasciato la casa “volontariamente”, cioè senza aver ricevuto allo sfratto, non ha il diritto di entrare nelle graduatorie per l’emergenza abitativa, cioè di poter accedere alle case popolari.
La sua scelta è stata quella di rifugiarsi in una pensioncina nel quartiere dove ha sempre vissuto, per la quale paga 450 euro al mese. Facile capire che di soldi per mangiare gliene rimangono pochi. Sta provando a tirarsi fuori da questo vortice, ma è difficile. Nessuno vuole affittare a una persona così esposta alla povertà inoltre non si può permettere di rivolgersi a un’agenzia immobiliare e, come già detto, le è impossibile l’accesso agli strumenti di aiuto messi a disposizione dagli enti preposti.
La forbice tra le sue spese e le sue entrate è così stretta che basterebbe un imprevisto per rendere la signora impossibilitata a pagare la pensione o a non mangiare, rendendola così esposta al rischio di diventare una senza fissa dimora.
Vorrei che storie come questa fossero di pubblica conoscenza, in modo che anche il mio carissimo venticinquenne conservatore possa muoversi dal suo mondo dorato e capire che la povertà esiste e se questa non è visibile è perché siamo molto bravi a non voler vedere per non essere messi a disagio.

venerdì 23 aprile 2010

un incubo

Le corporazioni sono un male profondo dell’Italia, non abbiamo le lobby ma abbiamo tanti di quegli ordini professionali che non si fa in tempo a contarli. Oggi mi sono infilato a una conferenza per giuristi dove sono presenti le corporazioni più connesse e omogenee che si possano immaginare: gli avvocati, i notai, i magistrati e i professori universitari di diritto. Ovviamente le posizioni politiche dei singoli sono tra le più disparate questo però non li differenzia tra loro per abbigliamento e vocabolario. Gli uomini hanno tutti giacca e cravatta, i più estrosi hanno cravatte di colori sgargianti, tutti hanno una borsa di cuoio, la stragrande maggioranza porta eleganti montature per occhiali in metallo. Le donne hanno tutte giacche nere con camicette di seta dai colori tenui, il taglio dei capelli è talmente omogeneo che sembra una caricatura: tanti caschetti, chi bionda e chi bruna, chi riccia e chi tinta, chi con la frangia e chi con la riga di lato, ma per tutte il taglio e sopra le spalle e con i capelli sciolti.

Poi uomini e donne parlano con lo stesso vocabolario, sicuramente ricco, ma in cui ricorrono sempre certe espressioni e non per forza di matrice giuridica. Un’ultima osservazione è sugli stravaganti che sono i più anziani e probabilmente i più ricchi e a affermati, mentre i giovani sono i più “pinguini” di tutti.

Ed io con le mie continue espressioni che ho saccheggiato dalle lingue che mi hanno circondato, con la mia borsa che è di cuoio ma che proprio non ha la forma di cartella, con i miei jeans trucidi e la mia capigliatura scomposta. Mi sembrava si essermi svegliato nel drive-in di Lansdale.

giovedì 15 aprile 2010

il leghista Gordon Brown

Il 6 maggio gli inglesi andranno al voto, naturalmente i media del belpaese hanno deciso che poco interessa agli italiani della politica degli altri paesi europei. O meglio ci interessiamo solo alle cose più importanti: non so, la crisi coniugale tra Sarkozy e la Bruni, ma sempre dimenticandosi di raccontare che il presidente francese ha fatto licenziare il giornalista e il caporedattore che hanno trovato e pubblicato la notizia.
Il Regno Unito dopo tre mandati con un governo di centro-sinistra è pronto a cambiare pelle. I sondaggi dicono che Gordon Brown parte in svantaggio rispetto al suo diretto sfidante Cameron. Quale risposta i laburisti hanno preparato per riconquistare un po’ di voti? Semplice, se la prendono con gli immigrati. Una cosa è chiara a tutti i politici europei: per prendere più voti bisogna prendersela con chi non vota, con chi è diverso, così tutti gli altri, il grande gregge, potranno votare non per qualcuno, ma contro qualcuno, contro gli stranieri, che fanno tanta paura.Il partito laburista ha deciso di scrivere un manifesto per le imminenti elezioni, nel quale si può leggere che “l’immigrazione è controllata, che le regole sono ferme e chiare”, passaggio condivisibile come lo è quello che condanna l’immigrazione clandestina, per poi arrivare a dire che agli uffici di collocamento ci sarà una corsia preferenziale per gli inglesi e che per gli extracomunitari che arrivano in Europa senza delle competenze specifiche sarà sbarrata la strada.
Il pezzo più interessante è però questo: “Poiché crediamo che venire nel Regno Unito sia un privilegio e non un diritto, romperemo l’automatismo fra la permanenza per un determinato periodo e la possibilità di ottenere la cittadinanza. In futuro restare qui dipenderà dal sistema a punti e l’accesso ai benefici sociali sarà progressivamente riservato ai cittadini britannici e ai residenti permanenti”. Non so come suona questo per voi, ma mi sembra che un leghista avrebbe potuto usare le stesse parole.
Come tanti a vent’anni ho preso armi e bagagli e sono andato a Londra per vivere il mio momento di libertà suprema. La cosa che più mi colpì fu il vedere una città dove così tante culture avevano possibilità di esprimersi. Spero che tra qualche anno mio fratello, che ora ha 9 anni, abbia la possibilità di “scappare” a Londra e che trovi un clima simile a quello che mi accolse nella sua intercultura. Sarà dura.

martedì 13 aprile 2010

arresta il chirugo!

In Afghanistan non ci sono i buoni e i cattivi, non esistono due schieramenti con ruoli ben definiti. Da una parte c’è un presidente, Karzai, eletto con scrutini truccati, i brogli sono stati ampiamente denunciati dagli osservatori internazionali. Dall’altro lato ci sono i talebani, quelli che starebbero nascondendo da quasi dieci anni Osama Bin Laden.

Senza infilarci nel dire il che e il perché, due sono le cose che meritano di essere menzionate. La prima è sicuramente che i talebani li hanno “creati” gli statunitensi, questo è un passaggio talmente vero che lo hanno messo pure in un film Stallone, cioè in uno di questi action movie, che tutto vogliono fare tranne prendere posizioni politiche scomode. In una delle sue avventure Rambo combatte a fianco dei combattenti per la libertà, leggasi i talebani, per sconfiggere l’invasore russo. Il secondo punto che va sottolineato è che il potere dell’attuale presidente afgano dipende completamente dalla politica mediorientale degli Usa. Karzai negli anni del suo primo mandato si è distinto per la capacità di buttare via i soldi che la Comunità Internazionale invia in Afghanistan, creando di uno degli stati più corrotti del mondo.


Con queste premesse se io fossi un afgano sarei abbastanza incazzato con gli Usa: prima mi mandano al potere i Talebani integralisti e dopo li spodestano, mettendo un presidente che organizza i brogli alle elezioni e distribuisce mazzette per tutto il paese.

Se questo non bastasse possiamo dire che gli statunitensi guidano una missione militare di oltre 100mila uomini in Afghanistan, e che questi militari sono la causa di un terzo dei morti civili della guerra. Però gli Usa non fanno tutto questo da soli, si fanno dare una mano dai fidi cagnolini europei. La sola Italia spende per la guerra in Afghanistan, in rifornimenti militari di uomini e mezzi, più di due milioni di euro al giorno.

In tutto questo ci sono delle piccole organizzazioni che decidono di sbattersene di Usa e Europa e di andare ad aiutare questi afgani che da anni si beccano le bombe. Tra queste organizzazioni c’è Emergency. L’associazione di Gino Strada non dispone di tutti i soldi che spendono i governi, il bilancio del 2008 era di poco più di 16 milioni di euro, ma con le sue capacità finanziarie apre e gestisce decine di ospedali in tutte le zone di guerra del mondo. Per questo Emergency parla di guerra in termini di persone morte, ferite, mutiliate e traumatizzate. È politico dire che la guerra fa morti e per questo il ministro Frattini se la prende con Emergency.

Per questo parlare dei morti e dar la colpa della morte alla guerra i tre operatori di Emergency sono stati abbandonati dalla diplomazia italiana. Non so se ricordate casi di agenti dei servizi italiani che vengono uccisi in zone di conflitto. Per uno 007 che muore sparando si fanno funerali di Stato. Per un chirurgo italiano che opera nel posto più pericoloso del mondo si fa una puntata di Porta a Porta, dove il ministro degli Esteri non si impegna nemmeno a fare pressioni politiche in un paese dove da agosto avremo 3000 dei nostri migliori soldati.

lunedì 5 aprile 2010

cittadinanza piemontese


Per la Santa Pasqua tutta la famiglia si è seduta attorno al tavolo per dare sfogo alla insaziabile voglia di cibo che dilaga nei grandi raggruppamenti di consanguinei durante le feste. Eravamo poco più venti con un tavolo a parte per i minori di 14, che non hanno il diritto al calice di bollicine a fine pasto. Inutile dire che questo genere di pranzi non ha alcuna possibilità di durare meno delle 4 ore, ma in giornate come oggi si arriva tranquillamente anche a sei. Tutte queste ore e tutto questo cibo esistono solo se la conversazione è attiva e stimolante, tanto che alcune delle decisioni più strambe si prendono proprio in questi pranzi giustificate da lunghi e contorti ragionamenti di gruppo. Vi sono poi momenti di democrazia partecipativa: durante l’ultimo pranzo a casa dei miei la collettività ha deciso che eravamo troppo stretti ed è stato votata la possibilità di abbattere un muro. Può sembrare pazzesco, ma martedì mattina mia madre avrà a casa i muratori che le faranno metteranno fine alla divisione tra salotto e soggiorno.

In questo contesto si può ben immaginare che il tema del pranzo di oggi non potevano che essere le recenti elezioni regionali. Guardando il tavolo con occhio critico ci si vedeva seduti attorno un bel gruppo di professionisti: avvocati, un dirigente, un medico, un insegnante, un impiegato, l’ingegnere e l’artigiano. Tutta gente integrata e, a parte i due più anziani, tutti laureati. Ma ci siamo guardati e ci siamo detti qui nessuno di noi è piemontese, nessuno di noi è veramente “padano”.

Per la legge italiana il Ius Soli, diritto di cittadinanza per nascita, non è riconosciuto, se quindi il bambino di una coppia statunitense nasce in Italia sarà lui stesso statunitense e non potrà avere la cittadinanza per nascita. La domanda che è circolata per la tavola è stata se quindi noi tutti immigrati, di prima o seconda generazione, avessimo o meno la cittadinanza padana e se i nostri figli l’avranno per il solo fatto di essere nati in Piemonte. Secondo voi Cota ci rimanderà nei paesi in cui sono nati i nostri padri, sapete che vi dico: non l’abbiamo votato, ma se il Piemonte diverrà troppo verde potremmo decidere che la nostra cultura, la nostra professionalità, la nostra voglia di costruire una società sana stiano meglio in un posto dove non vengono fatte differenze tra padani e non. E forse, ma solo forse, in quel momento vorremo il federalismo fiscale, che lascerà il Nord pieno di infrastrutture vuote e il Mezzogiorno ricolmo di professionisti pronti a cominciare tutto daccapo. Cota non merita la mia famiglia.

martedì 30 marzo 2010

sono deBresso

Sono arrivato ai Magazzini Bresso quando già il risultato era abbastanza chiaro. Le percentuali si muovevano ancora, ma la rimonta di due punti e mezzo sembrava già più che impossibile. I Magazzini Bresso sono stati ideati e gestiti da Marco Grimaldi, staffista dell’assessore regionale Bairati. Grimaldi è notissimo in tutti gli ambienti della sinistra torinese. Mi ricordo di lui sin dalle manifestazioni negli anni del liceo, e non è un personaggio che può essere considerato un allineato a priori al PD, anzi.

Con queste premesse mi aspettavo di bere un birra davanti a uno schermo e capire quali erano i sensi di colpa che rodevano questa gioventù di belle speranze. Insomma tutti coscienti che Cota sarà una mazza nel culo per tutti, ma un po’ di autocritica della sinistra giovane mi avrebbe lenito le ferite. Invece appena il tempo di arrivare e sento le urla di questa bella gioventù che vuole andare “a trovare” il candidato della lista 5 Stelle, Davide Bono. Insomma Cota non era ancora eletto e ai Magazzini Bresso già si organizzavano le ronde contro i non allineati. Tutti arrabbiati e tutti miopi.

La coalizione di centrosinistra ha aperto la porta all'UDC che ha portato 74mila voti e un sacco di candidati condannati e imputati. Spingendo così, chi della casta non vuole sentir parlare, a prendere un’altra strada, magari anche con i grillini, che hanno raccolto 69mila voti. Soprattutto la scelta di mettersi in casa l’UDC ha convinto molti ex-elettori del PD a non votare; a farsi i cazzi propri che la politica è una cosa brutta e sporca. Come si può chiedere a qualcuno di scegliere un centrosinistra che è a favore sia della Tav che del nucleare?

Morale della favola la coalizione Bresso ha preso quasi 200mila voti in meno di quelli raccolti nel 2005, facciamo finta che metà di questi siano andati per Bono, ma gli altri 100mila, dieci volte il distacco da Cota, dove sono andati?

I giovani riformisti di sinistra non hanno bisogno di pensare a questo, a loro basta un capro espiatorio e come al solito nel centrosinistra chi parla contro la corruzione e di una politica più corretta merita tutto il biasimo possibile. Non si sa mai, se la ronda di ieri sera contro i grillini è stata efficiente potrebbe essere arruolata dalle camicie verdi. Così almeno il nuovo presidente avrebbe iniziato a risolvere il problema della disoccupazione giovanile.