domenica 31 gennaio 2010

Oush Grab Vs Shdema

Oggi Berlusconi era in prima pagina sul quotidiano israeliano Haaretz, il vostro presidente del consiglio ha dichiarato la sua contrarietà all’allargamento delle colonie israeliane in territorio palestinese. Berlusconi sta seguendo alla lettera le direttive della politica estera di Obama. Il premier israeliano per non vedersi tagliare i lauti finanziamenti statunitensi si è anche lui dichiarato contrario all’aumento delle colonie. La politica di congelamento sembra aver preso piede, ma…

La storia che vi racconto oggi è quella di una collina a due passi da dove vivevo a Betlemme. Il posto in questione si chiama Oush Grab, ed è un ex base militare fino al 1967 sotto il controllo delle autorità giordane, che tuttora mantengono la proprietà legale dell’area. La collina è stata successivamente occupata dall’esercito israeliano che l’ha abbandonata nel 2000. Da questa data l’area è stata utilizzata sempre di più dalla municipalità di Beit Sahour, comune in cui è situata. Durante il 2008 è stato costruito sulla collina un giardino con attrazioni per i bambini e un’area pic-nic. Un’associazione statunitense, Paidia, è riuscita a trovare i soldi per costruire una torre per l’arrampicata che viene utilizzata settimanalmente dai bambini della zona con il supporto di arrampicatori professionisti provenienti da tutto il mondo.

Naturalmente l’Autorità Palestinese ha visto in Oush Grab uno spazio molto appetibile per la costruzione di un’infrastruttura, la collina si trova infatti a pochi minuti di macchina dal centro di Betlemme. È stato quindi progettato un ospedale pediatrico da costruire al posto della base militare, ma un gruppo di attiviste di estrema destra israeliane, Women in Green, ha iniziato a rivendicare Oush Grab come luogo per la creazione di una nuova colonia, chiamata Shdema. Mi sembra persino superfluo dire che le motivazioni portate dal movimento israeliano sono prive di fondamento vi faccio un paio di esempi: “la zona è citata nella bibbia quindi è terra destinata da dio all’uso esclusivo del popolo israeliano” oppure “se si lascia che gli arabi costruiscano qui un ospedale poi lo utilizzeranno per sparare contro le altre colonie israeliane”.

A tutto questo va aggiunto il fattore geostrategico del sito: Oush Grab è l’ultimo lato in cui Betlemme si può espandere. Se si prende una cartina si nota come la città natale del nazareno sia circondata dalla presenza israeliana: a nord Gerusalemme, a ovest e a sud Gush Etzion, il più grande assembramento di colonie israeliane in Cisgiordania. A Betlemme non resta che un lato per il proprio sviluppo: l’Est esattamente dove si trova Oush Grab. Per avere un’idea di quella che è la Palestina in questi giorni dovete immaginare una popolazione dove quasi il 50% non ha ancora 18 anni e dove le condizioni igienico sanitarie sono da terzo mondo.Da una parte i coloni israeliani motivati dalla “donazione” che dio ha fatto loro e dall’altra una società palestinese che ha un disperato bisogno d’infrastrutture. In questi anni gli israeliani si sono presentati sul sito sempre armati e accompagnati dall’esercito, mentre i palestinesi ci si recavano con i bambini a giocare. Come è finita?

In questi giorni, mentre non si parla d’altro che di congelamento delle colonie, i palestinesi sono stati “consigliati” a non recarsi più sul luogo e oggi l’esercito israeliano ha dichiarato che riaprirà sul sito un presidio militare. Non è stato specificato perché e per quanto, ma possiamo immaginare che appena Israele regolerà i propri rapporti di forza con gli Usa gli avamposti come Shdema diventeranno da militari a civili.

sabato 30 gennaio 2010

Bnl, armata dagli obiettori

A un certo punto nella storia italiana, un governo, poco importa se di destra o di sinistra, ha fatto due calcoli e si detto che il servizio militare obbligatorio era troppo costoso e che non serviva a molto all’educazione del cittadino. Si è scelto quindi di creare un esercito di volontari e professionisti, congelando la leva. Una precisazione: la leva non può essere abolita a meno che non venga cambiata la Costituzione, quindi in questo momento siamo in periodo di sospensione, ma la coscrizione obbligatoria potrebbe essere riattivata in qualsiasi momento. Con la fine, seppur temporanea, della naia è venuto a mancare il servizio degli obbiettori di coscienza, che però svolgevano ruoli sociali delicati, quindi il governo ha garantito la continuità di questo ruolo trasformando gli obbiettori in servizio civilisti. Per far questo è stato creato l’UNSC: un ufficio alle dirette dipendenze della Presidenza del Consiglio dei Ministri, che si occupa di tutto quel che concerne il servizio civile.

Uno dei punti cardine del servizio civile è la difesa della patria non armata e non violenta, su questo principio si basava l’essere obiettore e su questo principio dovrebbero essere ideati i progetti dei volontari. L’UNSC sembra però essersene dimenticato: ha infatti siglato un accordo con Bnl, scegliendola come banca privilegiata per l’apertura di conti correnti dei giovani in servizio civile. I ragazzi che iniziano il servizio civile sovente aprono il loro primo conto corrente proprio per ricevere l’accredito del rimborso, circa 430 euro mensili. Facile immaginare un buon numero di ragazzi non chiudano il conto alla fine del servizio per aprirne uno nuovo.

L’UNSC consiglia l’apertura di un conto corrente presso la Bnl che riserva un trattamento di favore al servizio civilista il quale non pagherà nessun costo di gestione, e fin qui sembra una cosa quasi normale. Se però andiamo a controllare come investe i propri soldi la Bnl scopriamo che è l’istituto di credito che fa più affari con le armi: 2 anni fa la Bnl investiva 62 milioni di euro nel mercato delle armi, nel 2009 il suo impegno nello stesso settore è di un miliardo e 253 milioni. Da quest’anno in questa cifra ci possono essere dei soldi che sono stanziati per la difesa non armata e non violenta della patria. Non capisco come l’UNSC sia potuto passare dal sistema di libretti postali alla banca più armata d’Italia.

lunedì 25 gennaio 2010

Piazza Rossa

A Nichelino, cittadina nella prima cintura di Torino, la piazza che si trova tra il palazzo comunale e la chiesa è da sempre chiamata Piazza Rossa, sia per il colore dei mattoni che ne compongono l’emiciclo, sia per la forma della piazza stessa. Come si vede nella foto la piazza ricalcherebbe il simbolo del Partito Comunista, la falce e il martello. Nichelino è stata per decenni città dormitorio per migliaia di operai che lavoravano presso lo stabilimento Fiat di Mirafiori e le numerosissime ditte dell’indotto automobilistico. Questo ha creato una base elettorale molto legata alla cultura socialista e la piazza ne è la prova, o meglio ne era la prova; infatti in turbinio di polemiche l’amministrazione comunale ha deciso di darle un nuovo volto.Il delicato progetto di restiling è stato affidato allo studio Isola, uno dei più importanti e rinomati di tutta Torino. Per me che vivo nelle vicinanze di Porta Palazzo lo studio Isola è legato al miglior angolo per i tossici di tutta Torino. Infatti è di un gruppo di questi architetti il progetto di riqualificazione delle Porte Palatine, proprio davanti al Duomo. Il parco archeologico ha dato spazio a dei magazzini sotterranei per i carretti del vicino mercato, gli ingressi dei sotterranei sono il luogo preferito da chiunque compri dell’eroina a Porta Palazzo. Ovviamente non si può dare la colpa di tutto a questi poveri architetti, loro hanno creato uno spazio isolato, tranquillo, accanto a uno dei più grandi mercati della droga di Torino e dal quale si ha una buona visuale sul corso; cosa ne potevano sapere degli urbanisti che queste sono le condizioni ideali per chi si vuole bucare in santa pace. Insomma leggendo che degli specialisti del calibro dello studio Isola si sarebbero occupati della Piazza Rossa ero tranquillo: tutti gli adolescenti nichelinesi avrebbero continuato a farsi le canne davanti al comune.Il bando vinto vale 2.5 milioni di euro, il risultato non è ancora del tutto visibile, ma dallo schizzo e da come procedono i lavori mi sento di fare una riflessione: la falce il martello sono stati cancellati, per lasciare posto a una più elegante foglia. A mio parere la forma originaria avrebbe dovuto essere mantenuta, non tanto come segno di connotazione politica, ma come una sorta di monumento della città. Se penso a tutte le forme falliche costruite durante il fascismo, mi sembra di vedere un’opera di valorizzazione degli architetti contemporanei, si faccia l’esempio della torre davanti al nuovo stadio Olimpico di Torino.

domenica 24 gennaio 2010

Karaoke domenicale

Che Berlino sia la città più stimolante per un giovane europeo lo si può considerare un fatto. Come fu Parigi negli anni ’20 e poi Londra nel secondo dopoguerra, la capitale tedesca vive in questi anni un picco di vitalità. Inutile parlarne bisogna andare a farci un giro e scoprire come la caduta del muro ha dato il via a una serie di fenomeni sociali che fanno invidia a tutte le altre capitali europee. Nella mia ultima visita, a ridosso del ventennale della caduta del muro, ho passato una domenica pomeriggio indimenticabile. A Mauerpark, una parco dove è conservato un bel tratto del muro, nel quartiere di Prenzlauer Berg tutte le domeniche c’è un enorme mercato delle pulci. Accanto al mercato qualche centinaia di persone si ritrovano nel primo pomeriggio per il karaoke più divertente che io abbia mai visto. C’è questo ragazzo che con una bicicletta esagerata si carica due casse audio, un mixer e un pc, si piazza in questo anfiteatro e inizia a prendere i nomi di chi vuole cantare cosa. Come in tutti i karaoke di strada ci sono interpreti fantastici e altri comici, ma il tutto è fatto con uno spirito che rende l’atmosfera incredibile.
Famiglie e ragazzi con una birra in mano, si siedono, cantano e battono le mani per un paio di ore. La cosa più inverosimile a gli occhi di un italiano: l’organizzatore non è mandato dal comune, ma fa tutto gratuitamente per il solo gusto di aggregare. Peccato che il tedesco sia un lingua impossibile perché se no ci sarebbe di andarci a vivere in una città così!

giovedì 21 gennaio 2010

Al di là di ogni buongusto

Con il rischio che Cota si prenda la regione, siamo tutti con il pepe sotto il culo, ma io non so mica se riuscirò ad andare a votare una che si presenta con una coalizione che va dall'Udc alla Federazione Comunista. Del partito di Casini si è detto di tutto e passi la politica dei due forni, e passi la più totale mancaza di un ideologia politica, e passi i cattolici, ma i Savoia no. Per chi non se lo ricordasse Emanuele Filiberto poco più di sei mesi fa, alle elezioni europee, era il capolista Udc per il nord-ovest. Se saranno i voti dei monarchici a riconfermare la Bresso sarà una magra vittoria nei confronti degli xenofobi leghisti.
Il manifesto sopra può essere un fotomontaggio, ma l'accordo politico esiste anche senza il cartellone.

domenica 17 gennaio 2010

Meglio il fucile o il bikini?

Qualche giorno fa un generale dell’esercito israeliano, ha invitato a boicottare i prodotti sponsorizzati da Bar Rafaeli. La modella israeliana, come tutti i suoi connazionali, avrebbe dovuto svolgere il servizio militare, due anni per le ragazze e tre per gli uomini, al compimento del diciottesimo anno d'età. La Rafaeli al raggiungimento della maggiore età era già ben avviata nel mondo della moda, quindi per sfuggire alla leva è ricorsa a un trucco: si è sposata, con un amico di famiglia, e ha divorziato appena ricevuta la lettera di congedo. Per la legge israeliana infatti il matrimonio impedisce lo svolgimento della leva. Il generale in questione ha detto che la Rafaeli si dovrebbe vergognare di aver aggirato la legge che la obbligava al servizio militare. La modella aveva dichiarato precedentemente che preferiva vivere a New York piuttosto che morire per il proprio paese.

Non tutte le israeliane si possono riescono a raggirare lo Stato come ha fatto la top model e per chi si rifiuta di fare il servizio militare ci sono leggi severissime, fino a due anni di carcere. Israele non prevede nessuna possibilità di obiezione di coscienza e questo crea un fenomeno stranissimo, almeno visto con gli occhi di un italiano: una marea di giovanissime ragazze in divisa. Internet è pieno di foto e filmini che plaudono la bellezza delle soldatesse israeliane. Io la Rafaeli la preferisco in posa su una spiaggia che in un check point con un fucile d’assalto in mano.

Il servizio militare per Israele è un momento cruciale per la formazione di un cittadino, molti sono le tecniche che cercano di legare i givovani con l'esercito. Sovente i ragazzi appena finito il servizio militare rimangono nelle forze armate per un altro anno, poichè gli anni di leva prevedono un piccolissimo rimborso spese, mentre l'anno supplementare è pagato bene, questo permette a molti giovani che non hanno alle spalle famiglie facolose di poter pagare le alte tasse d'ingresso all'università. Insomma dopo il liceo ci si fa 4 anni di armi per poi tornare a studiare, molti però si rendono conto che dopo un 'esperienza del genere non hanno più la capacità, e l'età, per riprendere gli studi.

Questi soldati in congedo, diventati uomini sotto le armi, sono creati per essere delle perfette parti di uno stato militare. Uno dei settori di punta dei servizi israeliani sono le ditte di sicurezza private, che si occupano anche di obbiettivi sensibili in tutto il mondo. In fondo chi meglio degli israeliani può occuparsi di sicurezza, lo Stato impartisce a ogni cittadino tantissime competenze su guerra, armi e terrorismo. Il principio è molto semplice: a forza di parlare di guerra, questa diventa fondante per la società, e chi non vuole farne parte o va in galera o fa la top model. Le foto del post ritraggono una brigata femminile al Muro del Pianto, poco dopo la preghiera.

giovedì 14 gennaio 2010

Jared un giornalista

Il giornalismo, quello vero perlomeno, è poco praticato e chi lo pratica finisce per sacrificare la sua vita personale per mantenere una propria linea editoriale. Questo è vero Italia, ma lo è molto di più per chi decide di lavorare nei posti caldi del mondo.

Da tre giorni Jared Malsin, giornalista americano di origini ebraiche, è detenuto presso l’aeroporto di Ben Gurion di Tel Aviv. Jared lavora dal 2007 all’agenzia di stampa palestinese Ma’an, dove ricopriva il ruolo di capo redattore della parte anglofona dell’agenzia. Dopo essersi laureato a Yale si è recato in Israele con un programma di scambio per giovani ebrei americani. Si è ben presto reso conto di chi nel conflitto giocasse il ruolo dell’oppresso e chi dell’oppressore e per questo decise di trasferirsi a Betlemme. Da allora lo stato israeliano gli ha concesso visti turistici di tre mesi in tre mesi fino a tre giorni fa. Jared tornava in Israele dopo una vacanza di una settimana a Praga con un’amica, Faith Rowold, anche lei cittadina statunitense. Dopo i controlli di sicurezza all’aeroporto di Praga sono entrambi stati presi in consegna dalla sicurezza dell’El Al, compagnia di bandiera israeliana, gli sono stati sequestrati i cellulari e sono stati portati in Israele. All’aeroporto di Tel Aviv sono stati interrogati e Faith è stata oggi deportata a Praga, mentre Jared è ancora in arresto presso Ben Gurion. La stampa di tutto il mondo si sta interrogando perché un giornalista ebreo americano che scrive per un’agenzia di stampa palestinese viene arrestato e trattato come un terrorista.

Quando vivevo a Betlemme Jared era un dei miei due coinquilini, l’altro era Baha, un palestinese mussulmano, io ho sempre riso pensando che sul divano di casa sedevano uno accanto all’altro l’ebreo, il mussulmano e il cattolico, io. Ora non rido più! Jared è chiuso in chissà quale cella senza nessuna ragione, e nella migliore delle ipotesi verrà deportato tra qualche giorno e bandito per anni e anni da Israele con la sola ragione che da giornalista aveva scelto di raccontare il conflitto dalla parte più scomoda.



mercoledì 13 gennaio 2010

Spot razzista di Kfc

A inizio gennaio è scoppiato su internet il caso di una pubblicità australiana di Kfc che è stato da molti additata come razzista. Durante un partita di criket, sport nazionale della terra dei canguri, un ragazzo bello e biondo siede composto sulle tribune, mentre attorno a lui un gruppo di tifosi di colore si scatena in urli e danze. Il ragazzo chiede al telespettatore come fa si a gestire una situazione del genere e alzando un enorme quantità di pollo fritto dice “Troppo facile”.
La mia prima reazione è stata di sorpresa, lo spot con i neri che si zittiscono alla sola vista del pollo fritto mi è sembrata uno stereotipo talmente esagerato da non poterlo manco considerare razzista. Spulciando un po’ su internet e dopo un paio di contatti con chi di Australia ne sa più di me, mi sono reso conto di un paio di cose: il cricket è uno sport lungo e abbastanza noioso con regole difficilissime che rende praticamente impossibile il tipo di tifo illustrato nella pubblicità. Inoltre l’Australia è si metà d’immigrazione, ma per lo più di popolazioni asiatiche e la popolazione di colore è una minoranza minuscola, cosa che rende difficile una tifoseria del tipo descritto dallo spot.
La pubblicità di Kfc utilizza uno stereotipo tutto occidentale: la gente di colore che perde coscienza davanti a una ciotola di pollo fritto. Lo spot è sicuramente razzista se visto con gli occhi di un europeo o di uno statunitense, ma lo è molto di meno per chi vive in Australia dove la separazione razziale esiste ed è forte, ma verso un altro tipo di minoranza, quella asiatica. Qui mi si pone la domanda, è il razzismo meno grave se non viene percepito ovunque nella stessa maniera? E possiamo pensare che questo spot spinga ad avvallare uno stereotipo razzista, tanto che l'australiano che andrà in vacanza negli States controllerà se nelle friggitorie ci sono solo persone di colore?

martedì 12 gennaio 2010

Il potere della collaborazione di massa

Che internet stia cambiando radicalmente le società è un fatto, ma quali sono le reali potenzialità di questi cambiamenti? Su questa domanda si basano i sessanta minuti del documentario Us Now.

La tesi del film è sconvolgente nella sua semplicità e correttezza. Se si può unire il sapere di un milione di persone che non si conoscono e creare un’enciclopedia di qualità, cos’altro si può creare con internet?

I nuovi strumenti non provocano in sé e per sé dei cambiamenti, ma sono i comportamenti di chi li utilizza che possono portare allo stravolgimento della società e forse anche alla rivoluzione. Il regista ci porta a scoprire diversi progetti che mostrano quanto sapere ognuno di noi porta con sé e di che grande beneficio se ne tra se tutti lo mettono in comune. Esempio palese sono i software open source: la grandi ditte informatiche spendono un sacco di soldi per sviluppare dei programmi che sono meno precisi e più instabili di programmi che vengono sviluppati da una marea di programmatori che lo fanno gratuitamente. Firefox ha migliaia di applicazioni in più di Explorer e qualsiasi programmatore può aggiungere dei componenti, lo fa gratuitamente e lascia a tutti la possibilità di sfruttarli. Se su un programma ci lavorano milioni di persone, anche se senza remunerazione, sarà più efficiente di un programma sviluppato da cento persone in un bunker della Silicon Valley.

Il documentario non si ferma qui e cerca di capire come un sistema così inclusivo possa cambiare i governi del mondo. Un politico fa i suoi spot per 6 mesi di campagna elettorale e dopo ha 4/5 anni per fare quello che vuole. Come cambierebbe la società se tutti avessimo modo di partecipare in modo attivo durante questi anni in cui la visione del leader politico diventa la linea di sviluppo del paese? Ovviamente una situazione di questo tipo è utopica, per una lunga serie di motivi, il più importante dei quali è che in questo momento non tutti hanno accesso alla rete.

Il film stimola la nascita di una consapevolezza nuova sull’importanza di questi strumenti a nostra disposizione e sull’importanza del periodo storico che stiamo vivendo. Chi avrebbe mai pensato che un gruppo di persone che non si conoscono, senza soldi e con una limitatissima gerarchia, potessero organizzare, tramite internet, una manifestazione di piazza, il No B day, più grande di qualunque altra organizzata dai partiti politici?



domenica 10 gennaio 2010

Cota sulle orme di Vasco

Lungi da me fare qualsiasi ragionamento politico sul Vasco, come ogni trentenne italiano ho una sorta di ammirazione profetica per il suo ruolo nella società italiana. Proprio per questo sono rimasto scioccato riascoltando uno dei suoi successi che più ho amato nella mia adolescenza: Colpa d’Alfredo. Inizia così: Ho perso un'altra occasione buona stasera/E' andata a casa con il negro, la troia!

Non mi ero mai accorto che in solo due frasi Vasco riuscisse a tirare fuori tutta la rabbia. Lo fa in modo che forse razzista non vuole essere, ma lo è. La storia si ripete in meno di un strofa: L'ho vista uscire mano nella mano con quell'africano/Che non parla neanche bene l'italiano/Ma si vede che si fa' capire bene quando vuole....

Mi gioco tutto sulla buonafede del Vasco, che ha pubblicato questa canzone nel 1980, ma rifletto sul fatto che la società italiana a 30 anni di distanza fa esplodere la sua rabbia nello stesso modo espresso dalla canzone. In più bisogna aggiungere che adesso le idee che annebbiavano la mente del rocker sono passate in politica. Infatti l’On. Cota, candidato presidente delle regione Piemonte, ha deposto un disegno di legge perchè gli immigrati, che vogliano ottenere la cittadinanza italiana, siano sottoposti a un esame di lingua italiana e di lingua locale, leggasi dialetto. Certo che se al Vasco gli si parla in modenese la ragazza gliela si soffia senza offenderlo.

sabato 9 gennaio 2010

Soluzione all'italiana

La più scioccante delle parole di oggi l’ho sentita al telegiornale, sulla rai e non sulla rete comunista, ma sulla ben più politically correct Raidue. La cronista, in diretta da Rosarno, ha parlato dei migranti che oggi sono stati deportati nei centri di prima accoglienza della provincia Crotone. Deportazione: trasferimento coattivo di un individuo o un gruppo di individui che sono obbligati a risiedere in un determinato luogo diverso dal proprio e che vi vengono condotti a forza.
Circa 300 stranieri, impiegati come braccianti stagionali nella Piana di Gioia Tauro, sono stati trasferiti in due centri di prima accoglienza vicino Crotone. Tutti hanno il diritto di lasciare il centro cui sono stati assegnati, anche gli irregolari, che sono circa il 30% dei lavoratori stagionali della Piana.
Le foto di questo post sono del campo della Croce Rossa di Settimo Torinese, che presto diverrà un CARA (Centri di accoglienza per richiedenti asilo). I centri che accolgono i migranti della Piana sono simili a quello fotografato. La domanda è: se voi doveste vivere in questo tipo di posto, senza possibilità di lavoro nelle vicinanze, ci rimarreste?Per Maroni le violenze di questi giorni a Rosarno sono da imputare all’immigrazione irregolare. Come soluzione il ministro fa spostare in massa i braccianti in dei centri con entrata e uscita sorvegliate, in condizioni di alta segregazione e con possibilità d’integrazione con la società civile quasi nulle. I rapporti di forza che si sono sviluppati in questi giorni a Rosarno non lasciano però allo Stato la possibilità di rimpatriare i clandestini, a cui è stata concessa la possibilità di lasciare i centri in cui sono stati trasferiti. Gli irregolari che abbandoneranno i centri rimarranno clandestini per la legge, insomma il ministro trasferisce gli irregolari di un centinaio di chilometri e poi li lascia liberi di ritornare dove lavoravano. Non si sa mai che qualche ’ndranghetista non ne abbia bisogno per la raccolta della arance che inizia a breve.

venerdì 8 gennaio 2010

La Piana di Gioia Tauro

Consiglio vivamente a chiunque voglia leggere questo post di ascoltare attentamente le parole di Pasolini prima d'iniziare.

Da ieri sera tutta Italia conosce Rosarno e la Piana di Gioia Tauro, mi fa specie sentirne parlare in radio e leggerne sui quotidiani. Per me Gioia Tauro è e resterà sempre la fermata del treno per casa dei nonni.

Per la prima volta poco più di un anno fa i migranti della Piana si "conquistarono" un posto nelle cronache nazionali, dovuta alla denuncia di un’associazione umanitaria sulle condizioni di vita dei braccianti stranieri che ha fatto eco un episodio di violenza. Scavando su internet si trovano vari reportage fatti da piccoli organi di stampa nel corso del 2009, da segnalare quello di Fortress Europe.

Non mi dilungo sulla situazione attuale ne sulle condizioni di vita dei migranti, ma vorrei spendere due parole sulla criminalità organizzata che ha radici in questa zona. Il ministro Maroni, sostenuto dal sempre fido Mantovano, ha ribadito, a forza di dichiarazioni, che i fatti di ieri sera sono riconducibili alla sola immigrazione clandestina. Nelle ore precendenti alle violenze di Rosarno, lo stesso ministro degli Interni, durante una conferenza stampa a Reggio Calabria, spiegava quanto lo Stato abbia fatto contro la ‘ndrangheta. Le dichiarazioni del ministro erano legate alla recente esplosione, di indubbia matrice mafiosa, davanti alla procura della repubblica di Reggio. Maroni ha elencato le varie "vittorie" dello Stato contro la ‘ndragheta. La percezione di chi vive in queste terre è ben diversa. Parlando con un mio cugino, reggino doc, nato e cresciuto a Reggio, è risultata chiara la differenza che passa tra la lotta che lo Stato combatte contro la mafia siciliana e quella con la ‘ndrangheta. Della mafia calabrese se ne parla poco, forse un po’ si più dopo la strage di Duisburg, e le risorse statali per combatterla sono molto limitate soprattutto in confronto a quanto è stato speso contro Cosa Nostra. La 'ndrangheta è stato nello stato, più forte, più ricco, più capillare e più radicato della mafia siciliana.

Oggi Maroni ha sottolineato nuovamente che il governo non si vuole spendere contro la ‘ndragheta, che controlla i flussi dei lavoratori stagionali e che li sfrutta facendoli lavorare e vivere in condizioni inumane. Lo Stato vuole chiudere a chiave le porte dell’Italia, lasciando fuori gli sfruttati, ma senza affrontare il problema vero della Piana di Gioia Tauro: gli ‘ndraghetisti che sfruttano migranti, autoctoni e risorse locali.

Nel 2008 Arte, televisione franco-tedesca di servizio pubblico, ha prodotto un documentario su un’indagine svolta a Rizziconi, a pochi km di curve da Rosarno. Dai dialoghi tra commissari, ispettori e il procuratore si evince il potere che la criminalità organizzata ha nella Piana di Gioia Tauro. Mi è oscuro il perché un tale documentario sia prodotto e distribuito da una rete televisiva europea, alla quale la Rai ha rifiutatodi partecipare, e non da una rete italiana.

Doss Piemontèis (Dolce piemontese)

lunedì 4 gennaio 2010

L'altro Sinai

Il Sinai è una delle mete più ambite dagli italiani che amano il suo mare, gli alberghi extra-lusso e i pacchetti all-inclusive dei villaggi turistici; questa, però, non è che una faccia della penisola egiziana. Il Sinai è la terra dei beduini e la si può godere nella sua forma più autentica nella zona ovest, sul golfo di Aqaba.

Arrivo dal confine israeliano a Eilat e in pochi metri l’organizzata e automatizzata frontiera israeliana, con tanto di aria condizionata, si trasforma nelle ciabatte dei soldati di confine egiziani. Un taxi mi porta a Ras al Satan, il corno del diavolo, 40 chilometri più a sud. Le verdi aiuole di Eilat sembrano lontane centinaia di chilometri, il paesaggio é spoglio: il deserto roccioso del Sinai. L’autista mi si propone come guida per i prossimi giorni e mentre la strada si insinua in una serie di piccole valli brulle, mi dice che per una cifra irrisoria mi avrebbe portato alla scoperta delle oasi che si trovano a meno di un giorno di jeep. E poi all’improvviso davanti ai nostri occhi appare il Mar Rosso.

Sulle spiagge di Ras al Satan ci sono, uno dietro l’altro, una dozzina di campeggi tutti con la medesima struttura: una baracca centrale, dove c’é la cucina, e tutto attorno tante piccole capanne, fatte di palme, a una ventina di metri l’una dall’altra. Questa lingua di terra si trova in un posto incantato: da un lato le montagne desertiche e dall’altro il mare, colorato dai coralli, e si vede l’altra sponda del golfo con sullo sfondo le montagne desertiche dell’Arabia Saudita. Mi scelgo una capanna e senza pensare faccio una corsa verso il mare e mi tuffo. Mossa sbagliata, i coralli che crescono fino al pelo dell’acqua mi graffiano piedi e ventre. Solo un’ora dopo un ragazzo mi dice che per fare il bagno esiste un corridoio di sabbia che si apre a pochi metri da dove mi sono tuffato.

Le passeggiate mattutine sul bagnasciuga mi rivelano un mare vivo, ad ogni passo vedo parti del fondo marino che si muovono, crostacei di cui non immaginavo l’esistenza scappano in ogni direzione. La sensazione più bella me l’ha regalata il mio primo pomeriggio di snorkeling: bastano un boccaglio e una maschera e il mondo prende un’altra prospettiva. Immergersi è come far scattare un interruttore: da un paesaggio desertico, si passa a una fauna e una flora marina tra le più lussureggianti. Nei giorni successivi faccio diverse escursioni con dei sub che mi portano a scoprire angoli spettacolari della natura marina locale. Il mare è anche specchio della cultura beduina, le tende sulla spiaggia ospitano le donne che con i bambini vengono a cercare rifugio dal caldo nella fresca brezza marina. Le donne della comunità locale sono coperte dal hijab, ampio velo che copre capelli, orecchie e nuca, mentre più rare sono le signore completamente celate dal burka. Gli uomini, invece sia vestiti all’occidentale, sia con gli abiti tradizionali gestiscono i campeggi, fanno da guida nelle immersioni e scarrozzano i turisti nel deserto.

Appena il sole inizia ad allungare le ombre, le tettoie, davanti alla baracca centrale del campeggio, si riempiono di affamati. Il sole caldo, caldissimo, non permette di mangiare durante il giorno e appena la temperatura inizia a scendere le cucine si animano. Il gestore del campeggio mi chiede cosa voglio mangiare e dopo aver preso l’ordinazione mi dice che ci vorrà un pò di tempo, aggiunge “anche un’ora” cosa che mi spaventa perché detto in arabo può voler dire di tutto. Come da tradizione il pasto viene servito sui tavoli bassi e i commensali siedono in terra su grandi tappeti di cotone colorato. Non esistono posate e piatti solo dei grandi vassoi con le portate e larghe pitte di grano nero che svolgono il triplice ruolo di pane, forchetta e tovagliolo. Il pasto è a base di pollo, formaggio fresco e insalata. Non appena vedo il pollo capisco perché ci sia voluto tutto questo tempo: nel pomeriggio avevo notato che in un recinto dietro le cucine c’era il pollaio. Insomma la mia ordinazione implicava andare a prendere il pollo tirargli il collo, spiumarlo e cuocerlo. Ho in bocca un animale che meno di un’ora fa beccava in terra. Orgoglio carnivoro.

Il campeggio è animato dalla gioventù del Cairo, universitari che hanno sfruttato le vacanze di fine Ramadan per fare sei ore di macchina e dare libero sfogo al loro divertimento. Gli stessi ragazzi che vedrei seri e affaccendati per le vie della capitale qui si concedono grandi bevute in pubblico. In Egitto l’alcol non è illegale, ma si può acquistare e consumare solo in privato o in alcuni locali lontani dagli occhi di tutti. Un personaggio locale é una signora francese che vive nel campeggio da diversi anni, arrivata l’età della pensione ha fatto un viaggio in Sinai e non è più tornata a casa. La sua pensione le basta per vivere in una bella capanna al fondo del campeggio e dice che dopo i primi mesi si è completamente abituata non avere luce elettrica e acqua corrente. Nella zona ci sono inoltre molti turisti israeliani che attirati dai prezzi bassissimi e dall’ospitalità beduina, decidono di ignorare le continue raccomandazioni dei ministeri di Tel Aviv, nelle quali si definisce il Sinai pericoloso. C’è sempre una strana concomitanza di feste musulmane ed ebraiche, in questo caso per gli arabi si festeggia la fine del Ramadan e per il giudaismo ricorre l’anno nuovo e lo Yom Kippur. Si radica sempre più in me l’idea di complementarità di queste due culture. Nella mia settimana di permanenza non ho incontrato italiani e pochissimi europei, l’impressione è quella di essere in una bolla dove pace e armonia con la natura regnano sovrane: il sole e le miriadi di stelle governano le giornate e le uniche urla provengono dai giocatori di backgammon.

La porta d’uscita del Sinai per gli egiziani é Nuweiba, da qui si può prendere un traghetto per Aqaba, in Giordania e da lì proseguire per la penisola araba fino al Golfo Persico. Gli egiziani sono un popolo di migranti, una piccola parte cerca fortuna in Europa, mentre la maggioranza tenta la via verso i paesi arabi della regione. La strada più veloce sarebbe il nord del Sinai, per poi attraversare Eilat e arrivare in Giordania, ma le autorità israeliane non permettono agli egiziani di attraversare il loro territorio e quindi chi deve lasciare il Sinai lo fa attraverso il porto di Nuweiba. In molti mi avevano sconsigliato di viaggiare su quel traghetto, ma la curiosità ha vinto. Di buona mattina mi presento alla biglietteria e immediatamente intuisco di aver fatto un errore.

Ci sono due traghetti giornalieri, uno dei quali con denominazione fast su cui cade la mia scelta. Con biglietto alla mano si accede al porto, dopo dei sommari controlli di sicurezza e il timbro sul passaporto si entra nella sala d’attesa per la partenza del traghetto. Comprendo la profondità del mio errore. Davanti al bagno ci sono due file, una per chi deve usare le turche e l’altra per chi si vuole lavare i piedi nel lavandino, precetto islamico della pulizia prima della preghiera. Questo non mi allarma più tanto, ma quando vedo che l’acqua ricopre il pavimento e si prepara ad allagare tutta la sala, inizio a essere spaventato per le condizioni igieniche.

Lo stanzone è lungo più di 100 metri e largo una decina, panche di legno dividono l’ambiente in più aree, l’areazione arriva da piccole finestre a diversi metri da terra. La luce non riesce ad entrare, questo fa si che il sole non batta all’interno della stanza facendo alzare la temperatura, ma crea un ambiente in penombra dove tutto sembra ancora più sporco di quel che é. Passo in quella sala più di 6 ore senza che nessuno ci venga a dire quanto ritardo ancora farà il traghetto, per terra si accumula immondizia e ognuno bivacca come può seduto sui propri bagagli. Appena saliti sul traghetto un caffè e l’aria condizionata mi fanno dimenticare tutto e in paio d’ore saremo in Giordania.