Sulle spiagge di Ras al Satan ci sono, uno dietro l’altro, una dozzina di campeggi tutti con la medesima struttura: una baracca centrale, dove c’é la cucina, e tutto attorno tante piccole capanne, fatte di palme, a una ventina di metri l’una dall’altra. Questa lingua di terra si trova in un posto incantato: da un lato le montagne desertiche e dall’altro il mare, colorato dai coralli, e si vede l’altra sponda del golfo con sullo sfondo le montagne desertiche dell’Arabia Saudita. Mi scelgo una capanna e senza pensare faccio una corsa verso il mare e mi tuffo. Mossa sbagliata, i coralli che crescono fino al pelo dell’acqua mi graffiano piedi e ventre. Solo un’ora dopo un ragazzo mi dice che per fare il bagno esiste un corridoio di sabbia che si apre a pochi metri da dove mi sono tuffato.
Le passeggiate mattutine sul bagnasciuga mi rivelano un mare vivo, ad ogni passo vedo parti del fondo marino che si muovono, crostacei di cui non immaginavo l’esistenza scappano in ogni direzione. La sensazione più bella me l’ha regalata il mio primo pomeriggio di snorkeling: bastano un boccaglio e una maschera e il mondo prende un’altra prospettiva. Immergersi è come far scattare un interruttore: da un paesaggio desertico, si passa a una fauna e una flora marina tra le più lussureggianti. Nei giorni successivi faccio diverse escursioni con dei sub che mi portano a scoprire angoli spettacolari della natura marina locale. Il mare è anche specchio della cultura beduina, le tende sulla spiaggia ospitano le donne che con i bambini vengono a cercare rifugio dal caldo nella fresca brezza marina. Le donne della comunità locale sono coperte dal hijab, ampio velo che copre capelli, orecchie e nuca, mentre più rare sono le signore completamente celate dal burka. Gli uomini, invece sia vestiti all’occidentale, sia con gli abiti tradizionali gestiscono i campeggi, fanno da guida nelle immersioni e scarrozzano i turisti nel deserto.
Appena il sole inizia ad allungare le ombre, le tettoie, davanti alla baracca centrale del campeggio, si riempiono di affamati. Il sole caldo, caldissimo, non permette di mangiare durante il giorno e appena la temperatura inizia a scendere le cucine si animano. Il gestore del campeggio mi chiede cosa voglio mangiare e dopo aver preso l’ordinazione mi dice che ci vorrà un pò di tempo, aggiunge “anche un’ora” cosa che mi spaventa perché detto in arabo può voler dire di tutto. Come da tradizione il pasto viene servito sui tavoli bassi e i commensali siedono in terra su grandi tappeti di cotone colorato. Non esistono posate e piatti solo dei grandi vassoi con le portate e larghe pitte di grano nero che svolgono il triplice ruolo di pane, forchetta e tovagliolo. Il pasto è a base di pollo, formaggio fresco e insalata. Non appena vedo il pollo capisco perché ci sia voluto tutto questo tempo: nel pomeriggio avevo notato che in un recinto dietro le cucine c’era il pollaio. Insomma la mia ordinazione implicava andare a prendere il pollo tirargli il collo, spiumarlo e cuocerlo. Ho in bocca un animale che meno di un’ora fa beccava in terra. Orgoglio carnivoro.
Il campeggio è animato dalla gioventù del Cairo, universitari che hanno sfruttato le vacanze di fine Ramadan per fare sei ore di macchina e dare libero sfogo al loro divertimento. Gli stessi ragazzi che vedrei seri e affaccendati per le vie della capitale qui si concedono grandi bevute in pubblico. In Egitto l’alcol non è illegale, ma si può acquistare e consumare solo in privato o in alcuni locali lontani dagli occhi di tutti. Un personaggio locale é una signora francese che vive nel campeggio da diversi anni, arrivata l’età della pensione ha fatto un viaggio in Sinai e non è più tornata a casa. La sua pensione le basta per vivere in una bella capanna al fondo del campeggio e dice che dopo i primi mesi si è completamente abituata non avere luce elettrica e acqua corrente. Nella zona ci sono inoltre molti turisti israeliani che attirati dai prezzi bassissimi e dall’ospitalità beduina, decidono di ignorare le continue raccomandazioni dei ministeri di Tel Aviv, nelle quali si definisce il Sinai pericoloso. C’è sempre una strana concomitanza di feste musulmane ed ebraiche, in questo caso per gli arabi si festeggia la fine del Ramadan e per il giudaismo ricorre l’anno nuovo e lo Yom Kippur. Si radica sempre più in me l’idea di complementarità di queste due culture. Nella mia settimana di permanenza non ho incontrato italiani e pochissimi europei, l’impressione è quella di essere in una bolla dove pace e armonia con la natura regnano sovrane: il sole e le miriadi di stelle governano le giornate e le uniche urla provengono dai giocatori di backgammon.
La porta d’uscita del Sinai per gli egiziani é Nuweiba, da qui si può prendere un traghetto per Aqaba, in Giordania e da lì proseguire per la penisola araba fino al Golfo Persico. Gli egiziani sono un popolo di migranti, una piccola parte cerca fortuna in Europa, mentre la maggioranza tenta la via verso i paesi arabi della regione. La strada più veloce sarebbe il nord del Sinai, per poi attraversare Eilat e arrivare in Giordania, ma le autorità israeliane non permettono agli egiziani di attraversare il loro territorio e quindi chi deve lasciare il Sinai lo fa attraverso il porto di Nuweiba. In molti mi avevano sconsigliato di viaggiare su quel traghetto, ma la curiosità ha vinto. Di buona mattina mi presento alla biglietteria e immediatamente intuisco di aver fatto un errore.
Ci sono due traghetti giornalieri, uno dei quali con denominazione fast su cui cade la mia scelta. Con biglietto alla mano si accede al porto, dopo dei sommari controlli di sicurezza e il timbro sul passaporto si entra nella sala d’attesa per la partenza del traghetto. Comprendo la profondità del mio errore. Davanti al bagno ci sono due file, una per chi deve usare le turche e l’altra per chi si vuole lavare i piedi nel lavandino, precetto islamico della pulizia prima della preghiera. Questo non mi allarma più tanto, ma quando vedo che l’acqua ricopre il pavimento e si prepara ad allagare tutta la sala, inizio a essere spaventato per le condizioni igieniche.
Lo stanzone è lungo più di
Nessun commento:
Posta un commento